Un ricordo di Ugo Bedeschi

Un ricordo di Ugo Bedeschi

Categorie: 2020 - EVENTI
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Quest’anno purtroppo non potremo ricordare il 25 aprile, il giorno della liberazione dalla dittatura fascista che si era alleata con l’altra infausta dittatura, quella di Hitler, per poi rendersene succube. Potremo però ricordarlo anche nel chiuso delle nostre case in cui siamo confinati da quasi due mesi, in compagnia dei tanti libri dedicati al movimento di “resistenza” cui sacrificarono la loro vita numerosi italiani amanti della libertà, della democrazia, del vivere civile, dei diritti umani nella speranza che essi possano continuare ad essere nostro patrimonio, forse ancor più rafforzato dopo questo difficilissimo periodo, difficilissimo non solo per noi italiani, ma per l’umanità tutta.

Io vorrei ricordare il momento della nostra riacquistata libertà, il 25 aprile del lontano 1945, riandando con la memoria a due fulgidi episodi della storia italiana, all’ormai lontanissimo 1848-1849, quando gli Italiani sperarono di liberarsi dall’oppressione austro-asburgica, che dominava direttamente la Lombardia, il Veneto, il Trentino e indirettamente (ma pesantemente) gli stati italiani ricomposti dopo la caduta di Napoleone e dopo  il Congresso di Vienna, quando i vincitori credettero che gli aneliti libertari della Rivoluzione francese fossero passati invano.

Gli aneliti alla libertà, a un coinvolgimento nel governo degli stati furono spinti da un forte vento da un capo all’altro dell’Europa, dall’Italia alla Francia, all’impero austriaco e ai vari stati germanici che poi formeranno l’impero tedesco, il secondo Reich sotto la guida della Prussia. I sovrani o furono cacciati come Luigi Filippo dal trono francese o furono obbligati a concedere una costituzione, la carta che sancisce i diritti (ed anche i doveri) dei cittadini, costituzione subito ritirata appena quei venti smisero il loro turbinoso e speranzoso soffio. In Italia solo lo statuto emanato da Carlo Alberto di Savoia non fu abolito e al Piemonte dei Savoia guardarono molti italiani come all’unica forza che avrebbe potuto portare il nostro paese all’unità. A Milano soprattutto erano forti i malumori contro il governo austriaco, eredi dei moti del 1821 che ebbero tristi e mortali conseguenze per i patrioti. Il vento rivoluzionario portò i milanesi alla gloriose “Cinque Giornate” del 18-22 marzo 1848, che costrinsero il generale Radetzky e le sue truppe a lasciare la città: “Fan fagott! Fan fagott!” esultava la popolazione. Fu un moto rivoluzionario cui parteciparono tutti: il popolo minuto, bottegai, negozianti, borghesi, intellettuali, nobili ed anche i piccoli martinitt, valorosi portaordini alcuni dei quali rimasero uccisi; si eressero barricate e le case furono trasformate in infermerie ove le donne curavano i feriti tagliando le loro lenzuola per farne bende. Purtroppo la guerra dichiarata all’Austria dal re Carlo Alberto ebbe esito negativo di fronte alla preponderanza delle forze nemiche.

A Roma intanto il 9 febbraio 1849 fu proclamata la repubblica con a capo un triumvirato formato da Carlo Armellini, Giuseppe Mazzini, Aurelio Saffi, repubblica che durò soltanto pochi mesi e che fu soffocata nel sangue a luglio per l’intervento delle truppe francesi. Era stata redatta una costituzione molto moderna, simbolo di laicità e di vera democrazia, ma essa fu promulgata solo pochi giorni prima della caduta della repubblica. Sarebbe profittevole, invece del solo elenco delle battaglie combattute, farla leggere e commentare a scuola.

Pochi giorni prima della proclamazione della Repubblica romana, un giovane musicista, aveva 36 anni ma aveva già conseguito successi in Italia e in Europa ed era destinato ad essere uno dei più amati operisti presso i pubblici di tutto il mondo, dico Giuseppe Verdi (il cui cognome scritto puntato V.E.R.D.I. significherà alcuni anno dopo, quando si avvicinerà il momento della seconda guerra d’indipendenza, “Viva Vittorio Emanuele Re d’Italia”), presentò il 27 gennaio 1849 in una Roma libera dal governo pontificio una nuova opera, la sua opera più patriottica, intitolata La Battaglia di Legnano, che metteva in scena il momento in cui i comuni italiani si ribellarono all’imperatore Federico Barbarossa, il “tedesco”, in cui il pubblico vide raffigurato un altro imperatore tedesco (o meglio austriaco), quell’Asburgo che siederà per 68 anni su un trono da cui dominò numerosi popoli di lingua, cultura, storia diverse. Il pubblico accolse l’opera con entusiasmo e vivissimo fu il successo, mentre nei palchi, in platea, nel loggione gli abiti erano decorati con sciarpe, coccarde e nastri tricolore. Nell’ultimo atto dell’opera, quando si videro entrare in scena i soldati, vincitori a Legnano il 29 maggio 1176 sul Barbarossa, fra i plausi del popolo, e Arrigo, soldato veronese ferito a morte in battaglia, morire baciando lo stendardo e cantando “È salva Italia!… io spiro… e benedico il ciel!”, il pubblico commosso chiese ed ottenne il bis di tutto l’atto.

L’opera si era aperta con un coro di milizie provenienti dai comuni riuniti in una lega antimperiale, cui si univa il popolo milanese inneggiante alla concordia finalmente trovata per opporsi al “fulvo signor”:

Viva Italia! Sacro un patto

tutti stringe i figli suoi:

esso alfin di tanti ha fatto

un sol popolo d’eroi!

Le bandiere in campo spiega,

o lombarda invitta Lega,

e discorra un gel per l’ossa

al feroce Barbarossa.

Viva Italia forte ed una,

colla spada e col pensier!

Questo suol che a noi fu cuna,

tomba sia dello stranier!

Il linguaggio usato da Verdi (e dal suo librettista, il napoletano, Salvatore Cammarano) è patriottico, è il linguaggio della poesia civile che in quei decenni si è fatta politica e patriottica, poesia di autori noti, meno noti o ormai  dimenticati sui polverosi scaffali delle biblioteche, che un tempo a scuola fin dalle elementari leggevamo e anche imparavamo a memoria. Ugo Foscolo nei versi finali dei Sepolcri afferma che “sarà santo e lagrimato il sangue per la patria versato”. Giacomo Leopardi nella canzone All’Italia piange la patria “or fatta inerme”. Alessandro Manzoni in Marzo 1821 spera che mai più ci siano barriere di confine tra le varie parti d’Italia:  ”non  fia loco ove sorgon barriere / tra l’Italia e l’Italia mai più!” Giovanni Berchet si commuove al giuramento dei comuni riuniti a Pontida “convenuti dal monte, dal piano!  / L’han giurato e si strinser la mano / cittadini di venti città”. Goffredo Mameli scrive i versi che diventeranno un inno, il nostro inno: “Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta”. Luigi Mercantini in La Spigolatrice di Sapri  piange la morte di Carlo Pisacane e dei suoi compagni: “Eran trecento, eran giovani e forti / e sono morti” (il 28 giugno 1857). Di Arnaldo Fusinato è il compianto sulla resa di Venezia, che era insorta contro gli Austriaci, il 19 agosto 1849: “Ma il vento sibila, / ma l’onda è scura, / ma tutta in tenebre / è la natura; / le corde stridono, / la voce manca… / Sul Ponte sventola / bandiera bianca!”  Giovanni Battista Niccolini canta in un sonetto i colori della bandiera che rimarrà anche la bandiera dell’Italia repubblicana, il bianco della purezza degli ideali, il rosso del sangue dei martiri eroi, il verde della speranza che mai deve venir meno: “Il bianco mostra ch’ella è pura e santa, / il rosso che col sangue è a pugnar presta, / e quell’altro color che vi s’innesta / che mai mancò la speme alla sventura”.

Chi ha avuto la pazienza di leggere queste righe, l’abbia anche nel rileggere i versi del coro verdiano, ne rimarchi le parole più significative e colga in esse quali siano stati gli ideali del nostro Risorgimento, almeno in quel periodo che portò alla nascita del regno d’Italia.

UGO BEDESCHI

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